Confesso che al pari dei libri misteriosi presenti in questo articolo i personaggi che ci ruotano attorno sono altrettanto strani e bizzarri. Antiquari dal passato nebuloso, esuli politici, veggenti, occultisti e monaci le cui vite mancano di dati certi al pari dei testi di cui sono entrati in possesso. È un processo curioso dove i primi si nutrono della fama di mistero e opacità che avvolge i secondi, alimentati entrambi dalla bizzarria delle storie circolate nei secoli attorno a questi testi misteriosi. Uno scambio dalla forma circolare che come un gorgo marino risucchia con il suo potere incantatorio chiunque vi si avvicini. Se in passato questi libri hanno magnetizzato l’attenzione di appassionati di esoterismo in cerca di verità occulte, nel corso del novecento la fascinazione ha catturato gli esperti di crittografia che si sono cimentati nella loro decifrazione. In alcuni casi gli sforzi sono stati premiati, in altri ci stanno ancora provando.

Se la faccenda vi appare confusa, siete sulla buona strada e in ottima compagnia. Questi libri sono diventati una tana del bianconiglio dove le regole valgono solo per chi le stabilisce e i confini non esistono. È un menù insolito, con portate abbondanti per chiunque abbia voglia di mettersi a tavola e sfogliare, con incantata fiducia, le pagine di questi libri strani e bizzarri, capaci più di altri di scatenare l’entusiasmo per il mistero.
Codex Gigas: la Bibbia del Diavolo
Iniziamo dalle misure: 92 centimetri di lunghezza, 50 di larghezza e 22 di spessore. Copertina in legno con inserti in metallo per un peso complessivo di 75 chilogrammi. Ecco spiegato l’appellativo gigas (gigante) con il quale il manoscritto, il più grande al mondo di epoca medievale, è oggi conosciuto. Se siete in visita a Stoccolma lo trovate esposto in una speciale sala della Biblioteca Nazionale di Svezia dove è lì dal 1649. In alternativa potete dare un’occhiata alla pagina ufficiale della biblioteca dedicata al manoscritto e alla sua storia che comincia in Boemia nella prima metà del XIII secolo e si conclude in Svezia dove oggi è custodito.

A venirci in aiuto per ricostruirne i percorsi, il manoscritto stesso dove, in una nota nella prima pagina, compare il nome del monastero di Podlažice, in Repubblica Ceca, come primo proprietario dell’opera. Da qui è passato successivamente al monastero di Sledec e a quello benedettino di Břevnov per ritrovarsi poi a Praga, siamo nel 1594, nella Wunderkammer dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, appassionato di mirabilia e curiosità varie. Con il sacco di Praga del 1648, la Bibbia del Diavolo prenderà la strada per Stoccolma, parte del bottino sottratto dall’esercito svedese nel corso del saccheggi.

A differenza di altri manoscritti misteriosi e tutt’ora indecifrati, del Codex Gigas conosciamo il contenuto, scritto in latino e composto da trattati di storia, vite dei santi, Atti degli Apostoli, formule magiche di probabile origine ebraica e una lista dei monaci del monastero di Podlažice, quest’ultima di grande aiuto agli storici per individuarne il luogo di origine. Fin qui nulla di strano. Quello che ha reso celebre il manoscritto tra i libri misteriosi, a dispetto del suo contenuto piuttosto innocuo, è il patto faustiano che ne sta all’origine.
Leggenda vuole che il monaco benedettino Herman il recluso fosse stato condannato, come lascia intendere il nome, a essere murato vivo a seguito della rottura dei voti monastici. Per evitare la punizione si impegnò a scrivere, in una sola notte, un’opera che avrebbe contenuto l’intera conoscenza del creato. Arrivato a mezzanotte e parecchio indietro sul lavoro, si affidò all’aiuto di Lucifero, in cambio della propria anima.


Ad alimentare la fama sull’origine infernale dell’opera l’illustrazione del diavolo e alcune bruciature presenti sulle pagine del manoscritto. Con tutta probabilità conseguenza dell’incendio che nel XVII secolo distrusse gran parte della Biblioteca Reale svedese. Vale la pena notare che al folio 576 l’autore inserisce anche un’illustrazione della Città Celeste, facendo perdere di mordente alla leggenda diabolica, ma poco importa. A distanza di secoli la forza evocatrice della Bibbia del diavolo è ancora così potente da catalizzare l’attenzione degli appassionati di faccende misteriose.
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Le Stanze di Dzyan e Madame Blavatsky
Di etichette a Helena Blavatsky ne sono state attribuite parecchie. Dai suoi ammiratori: mistica, veggente, filosofa, leader e cofondatrice della Società Teosofica Internazionale. I suoi detrattori l’hanno liquidata come una millantatrice, esibizionista, forse spia, di certo invisa ai britannici per le sue origini russe nel periodo rocambolesco del grande gioco asiatico. Viaggiatrice ed esule, certo, ma se la seguiamo nei suoi viaggi ecco polarizzarsi di nuovo le squadre in campo. Tra chi sostiene che non abbia mai raggiunto il Tibet e molti dei luoghi che afferma di aver visitato e chi invece ritiene sincere le parole della donna. L’unica fonte, va concesso, a testimoniare il suo arrivo, nel 1865, presso il monastero di Shigatse, in Tibet.

Qui, in compagnia del maestro spirituale Koot Noomi, avrebbe appreso il Senzar, una lingua antichissima appannaggio di una classe di mistici conosciuti come Fratellanza Occulta. Tra i testi che ebbe modo di consultare ecco comparire le Stanze di Dzyan, manoscritto esoterico il cui contenuto costituirà il nucleo fondativo de La Dottrina segreta. Quest’ultima, scritta da Helena Blavatsky e pubblicata nel 1888, rappresenta uno dei testi di riferimento del pensiero filosofico, storico e spirituale della Società Teosofica. Nel libro confluiranno intere parti delle Stanze di Dzyan, scritte in senzar nel periodo precedente al diluvio. Localizzazione: il continente perduto di Atlantide.

La faccenda si fa ancora più intrigante se guardiamo al volume due della Dottrina Segreta che con il titolo Antropogenesi offre una spiegazione esoterica delle origini dell’umanità. La fonte è sempre la stessa: il manoscritto perduto di Dzyan. Nel volume compaiono la già accennata Atlantide, il continente perduto di Lemuria e quello di Iperborea, così come il concetto di razze radice (sette in totale) caro al pensiero teosofico.
La Blavatsky, prendendo le distanze dalla teoria evoluzionistica di Darwin, riconduce l’origine dell’umanità a una razza di esseri eterei, materializzatisi, nel corso di milioni di anni, nei corpi fisici attuali. Non scimmie, ma divinità; se non altro al principio.

Il misterioso libro di Dzyan, al pari della vita avventurosa di Helena Blavatsky continua a restare tale, nonostante i tentativi di rintracciarlo da parte di storici e membri della società teosofica. Della lingua sacra di senzar, ammesso che sia mai esistita, non esistono tracce.
Codice Rohonc
La scarsità di notizie sull’origine e provenienza del Codice Rohonc ha contribuito all’atteggiamento di cauta diffidenza da parte degli accademici e studiosi che lo hanno analizzato. L’alfabeto sconosciuto, ammesso che di un alfabeto si tratti, e le sue illustrazioni ne hanno alimentato la fama di libro tra i più misteriosi al mondo. Di frequente accostato al manoscritto Voynich, per la resistenza con cui si è sottratto a ogni tentativo di decifrazione, il codice prende il nome dall’omonima cittadina ungherese dove era conservato. Come parte del catalogo di manoscritti e volumi del conte Gusztáv Batthyány fu donato da quest’ultimo all’Accademia di Scienze Ungherese nel 1838 dove è conservato ancora oggi.

L’unico riferimento antecedente a questa data, relativo alla possibile esistenza del manoscritto, è un appunto, risalente al 1743, presente nel catalogo bibliografico del conte:
Magyar imádságok, volumen I in 12
Che tradotto: volume singolo di preghiere ungheresi, in duodecimo. Dimensioni (in dodicesimo) e possibile argomento dell’opera (sulla base delle illustrazioni) parrebbero coincidere, ma senza ulteriori riscontri gli studiosi restano cauti.
Piccolo nelle dimensioni (12 x 10 cm), generoso nelle sue 448 pagine, il Codice Rohonc contiene 87 illustrazioni, la maggior parte delle quali a tema religioso e militare. L’alfabeto è attualmente sconosciuto. Sono state chiamate in causa lingue semitiche e dell’estremo oriente, codici cifrati e lingue artificiali, le rune ungheresi e l’antico alfabeto romeno. Per quanto i vari tentativi decifrazione abbiano dato qualche risultato su singole righe di testo, il codice Rohonc resta, a oggi, indecifrato nella sua totalità. Un aspetto che fin dalla sua scoperta ha alimentato il sospetto che si trattasse di un falso. Uno dei primi a nutrirlo fu lo storico ungherese Károly Szabó che ne attribuì la paternità a Sámuel Literáti Nemes, più conosciuto oggi nel suo ruolo di falsario che in quello di antiquario con il quale ingannò i più conosciuti studiosi del suo tempo.

È possibile scaricare o consultare (gratuitamente) il Codex Rohonc sulla piattaforma Archive.org; la qualità, trattandosi di una copia ricavata da un microfilm, lascia un poco a desiderare, ma sono comunque ben visibili sia le illustrazioni che i simboli sconosciuti che hanno reso celebre il codice.
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Libro di Soyga: John Dee e il manoscritto che uccide
Un testo scritto in latino dove compaiono genealogie angeliche, incantesimi e formule magiche, istruzioni astrologiche e congiunzioni lunari. Sicuramente bizzarro, ma nulla di così eccitante come le ultime trentasei pagine, occupate da altrettanti quadrati suddivisi in righe e colonne per un totale di 46.656 caselle. All’interno di ognuna sono state collocate lettere dell’alfabeto latino distribuite in maniera apparentemente casuale. Un enigma troppo ghiotto per non cercarne la soluzione.

La prima testimonianza nota del Libro di Soyga ci arriva dall’alchimista, matematico e astrologo britannico John Dee che con l’aiuto dell’occultista Edward Kelley e dell’angelo Uriel (!) tentò di trovare una chiave per la decifrazione delle 36 tavole. L’impresa si rivelò infruttuosa, con buona pace di John Dee viste le voci che circolavano sul manoscritto: chiunque ne avesse scoperto il segreto sarebbe morto a distanza di due anni. Alcuni decenni dopo il Libro di Soyga riappare nella biblioteca del conte di Lauderdale, alla voce Aldaraia sive Soyga vocor per poi scomparire definitivamente fino all’aprile del 1994.

All’epoca Deborah Harkness stava compiendo le sue ricerche di dottorato presso la University of South California a Los Angeles. Argomento di studio: l’alchimista John Dee. Incuriosita dal suo interesse per il Libro di Soyga decise di consultare il catalogo della British Library e della Bodelain Library, dove altri prima di lei avevano cercato: alla lettera S di Soyga Liber, però. Il manoscritto compariva invece, nel catalogo delle due biblioteche, con il nome di Aldaraia sive Soyga vocor dal titolo presente sulla prima pagina del libro.
A trecento anni dalla sua scomparsa si riaccese l’interesse per le tavole cifrate di Soyga, attirando l’attenzione del matematico James A. Reeds, esperto di crittografia, che si era già occupato, senza successo, della decifrazione del Manoscritto Voynich.
Nel caso del Libro di Soyga le cose sono però andate in maniera molto diversa. Nel 2004 l’analista statunitense dichiarò, senza nascondere l’emozione, di aver finalmente decifrato il contenuto del testo. La soluzione stava in una parola seme, diversa per ognuna delle 36 tavole, che consente, con apposite equazioni, di calcolare il resto delle lettere. Per una spiegazione più accurata del procedimento riscoperto da Reeds rimando al sempre curioso e magico sito di Mariano Tomatis. Ci trovate anche un apposito strumento per la creazione di un cifrario simile a quello di Soyga.
Oggi sappiamo, grazie al lavoro di Reeds, che delle 36 tavole del libro, 24 sono dedicate alle costellazioni (una per ciascun segno), 7 ai pianeti, 4 agli elementi naturali e l’ultima alla figura del magister. Mi piace ricordare che distanza di diciotto anni dalla decifrazione, il crittografo statunitense è ancora vivo e in buona salute.
Vaimānika Śāstra: macchine volanti nell’antica India
Seguire le tracce del testo che potrebbe rivoluzionare la nostra comprensione della storia passata è piuttosto semplice. Nel 1952 la notizia dell’esistenza del Vaimānika Śāstra fu rivelata al pubblico indiano da G. R. Josyer, fondatore nella città di Mysore (Karnataka) dell’International Academy of Sanskrit Research. Suddiviso in otto capitoli e scritto in sanscrito, il testo fu redatto all’inizio del novecento durante una serie di sessioni di channeling, una modalità di comunicazione a distanza con entità spirituali, condotte dal pandit (maestro) Subbaraya Shastry in collegamento con il saggio indiano Bharadvaja. Il contenuto del libro è a dir poco intrigante. Si presenta come un vero e proprio manuale di volo, con tanto di tipologie di aeronavi, piste di atterraggio e disposizioni alimentari per i piloti. Il tutto in una cornice storica che risalirebbe a decina di migliaia di anni fa.

Inevitabile lo scontro con storici e accademici che prima hanno liquidato la faccenda come pseudoscienza, poi si sono messi al lavoro sul testo, concludendo che i velivoli in questione, date le istruzioni presenti nel libro, non sarebbero mai stati in grado di volare. C’è chi ovviamente la pensa in maniera diversa, ma in questo caso occorre dare credito alla telepatia e al channeling, mettere da parte le Leggi di Newton e buttare all’aria quanto sappiamo, a oggi, della storia passata. Operazione senz’altro possibile, ma resa difficile dalla totale assenza di manoscritti simili in epoche precedenti.

È opportuno notare che il termine vimana è ben radicato nella letteratura indiana dove compare sia nel Rigveda che nel Ramayana con il significato generico di oggetto volante. Di volta in volta attribuito a carri, palazzi o templi con la capacità di librarsi in aria, i vimana sono i carri degli dei: simbolo del potere divino e terribili armi di annientamento per chiunque vi si opponesse. Vale la pena ricordare che nessun vimana è mai stato scoperto e che gli studi sul Vaimānika Śāstra condotti nel 1974 dai ricercatori dell’Università di Bangalore hanno confermato l’impossibilità al volo di questi oggetti dalla dubbia aerodinamicità. E però i disegni da loro effettuati e che compaiono nel documento sono così bizzarri e singolari che non sfigurerebbero in un anime di fantascienza cyberpunk.
Liber Linteus: il più lungo testo in lingua etrusca
Una storia avvincente unisce l’antica Tuscia all’Egitto del III secolo a. C. passando per il Regno d’Ungheria e i Balcani. A collegare i punti di questa mappa il Liber Linteus: il più lungo testo in lingua etrusca giunto fino a noi e l’unico esempio, conservato, di libro su panni di lino dell’antichità. Proveniente dall’Egitto fu portato in Europa dal funzionario croato Mihajlo Barić, antiquario e collezionista impegnato in un viaggio di esplorazione alla ricerca di antichità. Al momento della scoperta, avvenuta tra il 1848 e il 1849, le 12 bende di lino che compongono il liber avvolgevano la mummia di una giovane donna, vissuta in epoca tolemaica.

Alla fine del 1859, poco prima di morire, Barić aveva già ultimato la separazione delle bende dal corpo, ma fu solo alla fine del XIX secolo che il testo presente sui panni venne riconosciuto come etrusco. Una scoperta eccezionale che nei decenni seguenti avrebbe spalancato nuove prospettive sui legami che univano il mondo etrusco a quello ellenistico. Sulla base di indagini grafiche e fonetiche la provenienza del testo viene fatta risalire all’Etruria settentrionale. Gli studi condotti da L. Bouke van der Meer hanno ulteriormente ristretto il campo individuando nell’antica città etrusca di Ena (San Quirico d’Orcia) il luogo di compilazione del libro. Ipotesi affascinante, ma su cui gli storici non concordano all’unanimità.

Il contenuto del testo, tradotto solo parzialmente, ma compreso nei suoi caratteri generali, fa riferimento a una serie di preghiere, prescrizioni e azioni per la corretta esecuzione di rituali. Destinatari dell’opera le comunità commerciali etrusche stanziatesi in Egitto a seguito della conquista romana del II secolo a. C. Un manuale liturgico che testimonia il forte legame mantenuto dalle comunità etrusche con la madrepatria, a dispetto della distanza che le separava. È ragionevole supporre[1] che, con la scomparsa dei proprietari, il testo sia passato di mano in mano perdendo il suo valore liturgico per acquistarne un altro molto più funzionale e pratico ed essere trasformato in prezioso tessuto per il bendaggio di una mummia.
Il Liber Linteus è oggi conservato in una camera refrigerata del Museo Nazionale di Zagabria, al quale è stato donato nel 1867 da Ilija Barić, fratello di quel Mihajlo che venti anni prima aveva compiuto, senza averne il sospetto, una delle più grandi scoperte archeologiche della storia etrusca.
NOTE
1 F. Pontani, Il Liber Linteus di Zagabria, Mediterraneoantico, 25 settembre 2021, da https://mediterraneoantico.it/articoli/il-liber-linteus-di-zagabria/↵