Wollemia, da tempi immemorabili, aveva deciso di ritirarsi in Australia, lontano dai parenti sparsi tra le Ande e le isole del Pacifico. Per lungo tempo non si ebbero sue notizie: di questa pianta ci erano giunte solo parti fossili, fotografie del passato che facevano pensare alla sua scomparsa. Finché una trentina di anni fa una guardia forestale, esplorando un canyon di un parco australiano, non si imbatté in un gruppo di piante mai viste, simili a dei pini. Ancora non lo sapeva, ma era di fronte ad alberi rarissimi che avevano scelto quella gola angusta come loro ultimo rifugio. Erano esemplari di wollemia, pianta fossile vivente che si pensava estinta da circa due milioni di anni.
Nel raccontare le storie degli alberi più rari del pianeta, la tentazione di umanizzarli è forte. Alcuni alberi sembrano aver scelto la via della fuga o dell’isolamento, come nel caso della wollemia: prima in un’isola, l’Australia, poi in un canyon sperduto. Certi alberi rari portano i segni della malinconia dovuta alla perdita di un compagno, altri hanno deciso di restare in un luogo nonostante il mondo stesse cambiando.
Gli alberi qui sotto sono nella Lista rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN). Non potendo inserirli tutti, ho raccolto le storie che mi hanno colpito di più, senza dimenticare il nostro paese e un accenno ad alcuni alberi italiani molto rari.
Wollemia
Nel 1994 il guardaparco Dave Noble si trovava a circa centocinquanta chilometri a nord di Sidney, nel Wollemi National Park. Aiutato dai colleghi Michael Casteleyn e Tony Zimmerman, si calò con una fune in una gola altrimenti inaccessibile e si trovò di fronte a un gruppo di piante dall’aspetto curioso. Fu colpito in particolar modo da foglie e corteccia. Prese dei campioni per farli identificare e in seguito, grazie al lavoro di due botanici, si comprese la portata della scoperta. Per puro caso, Dave Noble si era imbattuto in una popolazione relitta di wollemia, una pianta fossile vivente[1].

Secondo la documentazione fossile, alberi simili alla wollemia erano comuni in Australia fino a quaranta milioni di anni fa, ma da allora la loro abbondanza è diminuita. L’ultima testimonianza di questi alberi è un fossile ritrovato in Tasmania, vecchio di circa due milioni di anni. Era lecito pensare che nel frattempo la specie si fosse estinta.
A volte la wollemia viene indicata come pino di Wollemi, ma non si tratta di un pino. Dopo il suo ritrovamento, gli scienziati hanno stabilito che appartiene alla famiglia delle Araucariacee, un antico gruppo di piante di cui si trovano ancora oggi alcune specie sparse tra le Ande, il Sud America e qualche isola del Pacifico. Alla specie appena scoperta fu dato il nome di Wollemia nobilis ed è stato mantenuto segreto il luogo esatto in cui si trova l’ultima popolazione relitta di questo rarissimo albero.
Ginkgo
Così comune nei parchi cittadini, negli orti botanici e persino nelle erboristerie come rimedio per la memoria, il ginkgo in passato ha rischiato di estinguersi. In natura, è tutt’oggi un albero raro.
Il ginkgo ha una storia di duecento, forse duecentocinquanta milioni di anni. Quando la Terra era ancora abitata dai dinosauri, alberi del genere Ginkgo erano diffusi in vaste aree del pianeta. Sopravvissero alla grande estinzione di sessantacinque milioni di anni fa e continuarono a prosperare nell’emisfero boreale. Poi il clima divenne più freddo, periodi di espansione dei ghiacci si alternarono a fasi interglaciali e il ginkgo iniziò a ritirarsi in aree sempre più ristrette, fino a quasi scomparire. A quanto pare, oggi lo si ritrova allo stato davvero naturale solo in qualche sperduta valle del Guizhou, nel sudovest della Cina.

Non si sa con certezza perché un albero così comune sia arrivato sull’orlo dell’estinzione. Un’ipotesi affascinante, riportata da Peter Crane in Ginkgo. L’albero dimenticato dal tempo è che i semi di ginkgo venissero diffusi da animali che, dopo essersi estinti milioni di anni fa, avrebbero lasciato l’albero senza i suoi agenti di dispersione. L’area di diffusione del ginkgo si sarebbe così ristretta sempre di più, fino a ridursi a qualche sperduta valle della Cina. Ma fu proprio in quei luoghi che il ginkgo, dopo milioni di anni di solitudine, trovò un nuovo compagno di avventura. La specie umana rimase colpita da questo albero raro e malinconico, ne divenne un valido alleato e iniziò a coltivarlo per diffonderlo, di nuovo, su tutto il pianeta.
Ginkgo. L’albero dimenticato dal tempo
Peter Crane

Metasequoia
Il ginkgo non è l’unica pianta fossile vivente che proviene dalla Cina. Nel 1943[2] il signor Chan Wang, dell’Ufficio nazionale per la ricerca forestale, si stava dirigendo verso Shengnongjia, nella provincia dell’Hubei. Durante una sosta venne a sapere di uno strano albero che cresceva nei pressi di Moudao. Ne raccolse alcuni campioni e, tornato dal suo viaggio, li prese in esame e li inserì nell’erbario classificandoli erroneamente come Glyptostrobus pensilis: una pianta, anch’essa rarissima, nota anche come cipresso delle paludi cinese.
Fu solo qualche anno dopo che altri studiosi, accedendo all’erbario dell’ Ufficio nazionale per la ricerca forestale, si accorsero dell’errore e che il campione raccolto da Chan Wang corrispondeva a una specie nota fino ad allora solo attraverso la documentazione fossile. Wang era stato il primo studioso a entrare in contatto con un esemplare vivente di Metasequoia glyptostroboides.

L’errore di Chan Wang fu comprensibile. I primi fossili di metasequoia erano stati scoperti e identificati solo due anni prima, nel 1941, dal paleobotanico giapponese Shigeru Miki e solo in seguito si scoprì che, un po’ come il ginkgo, anche la metasequoia era una volta estesa su un’area molto più vasta, che comprendeva parte del Nordamerica e dell’Asia. Presente sul nostro pianeta dal almeno centocinquanta milioni di anni, nel 1943 Metasequoia era sull’orlo dell’estinzione nel suo habitat naturale. Oggi è ancora un albero raro in natura, ma è stato salvato grazie alla sua adozione in numerosi orti botanici, parchi e abitazioni private come pianta ornamentale.
Café Marron
Sono rimasto senza fiato quando ho letto che di questa pianta era rimasto un solo esemplare. Il café marron (Ramosmania rodriguesi, della stessa famiglia del caffè) cresceva solo sull’isola di Rodrigues, nella Repubblica di Mauritius e negli anni 1950 era considerata estinta, forse da tempo. Questo alberello era conosciuto solo per una descrizione botanica e un disegno, entrambi dell’Ottocento.
Nel 1980 un insegnante mandò i suoi studenti a cercare piante. Uno di loro gli si presentò con un campione che avrebbe fatto impazzire la comunità botanica internazionale. Apparteneva a un albero di café maron, che si rivelò essere l’unica pianta rimasta sull’isola.

Alcune talee furono mandate ai Kew Gardens, nel Regno Unito, dove iniziò il tentativo di resuscitare la specie. Dalle talee si ottennero diversi individui adulti, ma gli scienziati si scontrarono con un problema: i fiori sembravano essere auto incompatibili e non c’era verso di produrre semi. Fu chiesto l’aiuto di Carlos Magdalena, che aveva già salvato altre specie rare dall’estinzione. Il botanico trovò presto un modo per aggirare la barriera che impediva l’autoimpollinazione, ottenne i primi semi e, dopo alcuni tentativi infruttuosi, riuscì insieme al suo team a far crescere piantine vitali.
L’albero del café maron era salvo, ma regalò un ultimo brivido ai ricercatori. Le giovani piantine avevano un aspetto completamente diverso, ma dopo essere cresciute prendevano le stesse sembianze degli adulti. Presto si scoprì il perché[3]. Una specie di tartaruga gigante dell’isola di Rodrigues è ghiotta per le foglie verde brillante della pianta adulta; quando la pianta è ancora giovane, con le sue foglie verde opaco, si rende invisibile alla tartaruga e riesce a sfuggirle.
Lodoicea maldivica
La Lodoicea maldivica, a dispetto del nome, cresce in due sole isole dell’arcipelago delle Seychelles. È un albero piuttosto raro e in natura ne restano circa ottomila esemplari. La specie è minacciata dalla distruzione dell’habitat, dagli incendi, e dalla raccolta dei semi che ha pressoché interrotto la rigenerazione naturale delle popolazioni. Il perché i semi non sfuggano all’occhio umano lo si capisce dalla loro dimensione.

La Lodoicea maldivica, o cocco di mare, è una pianta da record. Come racconta Stefano Mancuso ne L’incredibile viaggio delle piante, il cocco di mare vanta il frutto selvatico più grande in natura e i semi più pesanti, fino a 17 kg per un singolo seme. A quanto pare, un tempo questa pianta aveva semi più piccoli e ne affidava la dispersione agli animali. Quando le Seychelles si staccarono dall’India circa 65 milioni di anni fa, la pianta rimase senza vettori e i semi non potevano far altro che cadere a terra, vicino alla pianta madre. Le piccole piantine si trovavano quindi a competere con i genitori e questi, per assicurare la sopravvivenza della prole, svilupparono semi giganteschi ricchi di riserve energetiche e minerali.
L’incredibile viaggio delle piante
Stefano Mancuso

Betulla di Chichibu
Betula chichibuensis cresce sugli affioramenti calcarei dei monti Okuchichibu, all’interno del Chichibu Tama Kai National Park, in Giappone. Chichibu è una cittadina nella prefettura di Saitama, circondata da foreste e montagne calcaree come il Bukō-san.
Questa speciale betulla fu descritta come specie nel 1965 e fino al 2015 se ne conosceva una sola popolazione, quella dei monti Okuchichibu, dove erano stati contati solo ventuno esemplari. Troppo pochi per garantire la sopravvivenza di qualsiasi specie arborea, ancora di più per Betula chichibuensis, i cui alberi sono autoincompatibili e hanno pertanto bisogno di due individui abbastanza vicini per impollinarsi in maniera incrociata e produrre semi.

Dopo il 2015 sono state trovate altre piccole popolazioni di Betula chichibuensis nei monti Kitakami, in Tohoku, nel nordest del Giappone. Nonostante questo e i programmi di produzione di semi in arboreti in collaborazione con diverse università, la Betulla di Chichibu rimane un albero rarissimo e a rischio di estinzione. Terremoti, incendi, tifoni e altri eventi incontrollabili, più frequenti in Giappone che altrove, mettono a rischio le poche popolazioni esistenti.
Aloidendron pillansii
Aloidendron pillansii, nota in passato come Aloe pillansii, è una pianta succulenta che appartiene alla stessa tribù della più nota Aloe vera anche se, a differenza di quest’ultima, ha sviluppato un portamento arboreo. Nell’Africa meridionale si trovano tre specie di aloe arboree; di queste, Aloidendron pillansii è la più rara[4].

La forma curiosa e gli ambienti marziani in cui cresce mi ricordano l’isola di Socotra, ma Aloidendron pillansii cresce al confine tra la Namibia e il Sudafrica nella regione arida del Richtersveld. Le poche popolazioni rimaste di questa specie crescono tra i 250 e i 1000 metri di altitudine, in ambienti aridi in cui le poche piogge sono concentrate nell’inverno.
Aloidendron pillansii è uno degli alberi più rari del pianeta. Il suo habitat è ristretto, ha una bassa capacità di diffusione ed è minacciata dal sovrappascolo e dalla perdita di habitat. Le poche popolazioni rimaste sono in declino e se non ci saranno interventi la specie è destinata all’estinzione.
Pino del Paranà
Araucaria angustifolia è comunemente nota come pino del Paranà, anche se di fatto non è un pino.

La forma di questi alberi ricorda quella di un candelabro, ma hanno anche un aspetto antico, primitivo, e mi aspetto che da un momento all’altro dietro le loro chiome faccia capolino un dinosauro. Il genere Araucaria esiste in effetti sin dal Triassico, oggi è confinato all’emisfero australe e conta diciannove specie. Tra queste, c’è il pino del Paranà, pianta fossile vivente[5] che si trova in principalmente in Brasile e in aree limitate di Argentina, Paraguay e Uruguay.
Benché questo albero non sia ancora raro, nel corso del ventesimo secolo ha perso il 97% del suo habitat a causa del disboscamento, dell’agricoltura e della silvicoltura. Per questo è considerato una specie in pericolo critico di estinzione[6].
Alberi italiani rari
Zelkova sicula
La Zelkova sicula, al pari del ginkgo, della wollemia e della metasequoia è una pianta fossile vivente. Non se ne conoscevano esemplari vivi fino al 1991, quando il botanico Giuseppe Garfì si trovò di fronte ad alberi sconosciuti. Raccolse campioni, tentò di classificarli, ma non c’era modo di giungere a una conclusione, se non a quella di aver fatto una incredibile scoperta. Con l’aiuto di altri studiosi, la pianta fu classificata come Zelkova sicula.

Il genere Zelkova ha una storia antica di ottanta milioni di anni e fino a circa cinque milioni di anni fa era presente in tutto l’emisfero boreale. Con l’alternarsi di periodi glaciali e interglaciali degli ultimi due milioni e mezzo di anni, Zelkova è scomparsa progressivamente dal continente europeo, tranne che in due aree: a Creta (Zelkova abelicea) e in Sicilia (Zelkova sicula).
Z. sicula è confinata in due sole popolazioni relitte sui monti Iblei, nei territori di Buccheri e di Melilli, in provincia di Siracusa. Nonostante i cambiamenti climatici del passato, questi alberi straordinari sono rimasti in Sicilia e si sono adattati alle condizioni climatiche locali, pur crescendo in aree con riserve d’acqua sotterranee che hanno una durata più prolungata[7] e che li aiutano a superare il periodo estivo. Sono in corso programmi di conservazione e diffusione della specie, ma al momento Z. sicula rimane un albero molto raro, con poche centinaia di individui in natura.
Abete dei Nèbrodi
Un po’ come la Zelkova sicula, anche l’abete dei Nèbrodi (Abies nebrodensis) è testimone di condizioni climatiche lontane da quelle attuali, quando gli abeti prosperavano in Sicilia. Con la fine dell’ultima glaciazione, l’abete dei Nèbrodi si è trovato a competere con specie più adatte ai climi caldi; si è così spostato ad altitudini più elevate e in aree sempre più ristrette. In tempi recenti ha subito il taglio per ricavarne legname, al punto che all’inizio del ventesimo secolo era considerato estinto.

Nel 1957 fu riscoperto sulle Madonie (è noto anche come abete delle Madonie), dove sopravvive una popolazione relitta di una trentina di esemplari, che lo rendono uno degli alberi più rari del pianeta, in pericolo critico di estinzione. Nel 2000 è stato avviato un progetto di conservazione della specie che ha consentito la raccolta di semi fertili e la coltivazione di numerosi esemplari di abete dei Nèbrodi in orti botanici e arboreti specializzati.
Note
1 Oltre che di fossile vivente, nella letteratura scientifica si parla di taxon Lazzaro: un animale o una pianta che scompare dai reperti fossili (e quindi ritenuto estinto), per poi ricomparire in strati più recenti o nel proprio ambiente naturale.↵
2 Molte fonti indicano ancora il 1945 come data di scoperta della Metasequoia nel suo ambiente naturale. In realtà è avvenuta nel 1943, come spiegato nel seguente paper scientifico: Ma, Jinshuang (2002) “The History of the Discovery and Initial Seed Dissemination of Metasequoia Glyptostroboides, a “Living Fossil”,” Aliso: A Journal of Systematic and Evolutionary Botany: Vol. 21: Iss. 2, Article 4. Available at: http://scholarship.claremont.edu/aliso/vol21/iss2/4↵
3 Fonte: https://www.indefenseofplants.com/blog/2018/11/14/the-resurrection-of-caf-marron↵
4 Fonte: http://pza.sanbi.org/aloidendron-pillansii↵
5 Wilson OJ, Walters RJ, Mayle FE, Lingner DV, Vibrans AC. Cold spot microrefugia hold the key to survival for Brazil’s Critically Endangered Araucaria tree. Glob Chang Biol. 2019 Dec;25(12):4339-4351. doi: 10.1111/gcb.14755. Epub 2019 Aug 10. PMID: 31301686.↵
6 Araucaria angustifolia, Wikipedia the free encyclopedia, 2 gennaio 2022, da https://en.wikipedia.org/wiki/Araucaria_angustifolia↵
7 Fonte: https://www.zelkovazione.eu/www.zelkovazione.eu/contenuti/la-specie.html↵